
Alcune parole diventano il simbolo di un certo periodo storico. Il rinnovamento negli anni ‘60, la trasgressione nei ‘70, l’edonismo negli anni ‘80, la rivoluzione tecnologica negli anni ‘90. Gli anni ‘20 del nuovo (ma non più nuovissimo) millennio saranno ricordati con la parola inclusività.
Stiamo assistendo a una rivoluzione culturale molto vicina a quella degli anni ‘70 con la differenza che la rivoluzione è più social che sociale e si diffonde con estrema velocità in tutti gli ambiti del nostro quotidiano.
Già nel primo decennio del XXI secolo la lotta per il riconoscimento dei diritti degli individui ha scosso governi, pensieri e coscienze.
Le prime lotte per l’inclusività sono partite dalle comunità omosessuale che ha aperto la strada (e le menti) alle battaglie contro tutto ciò che nega i diritti di un individuo a causa di una diversità di genere, di razza, di credo religioso o politico, di una disabilità fisica o intellettuale.
Poi…la pandemia.
La pandemia ci ha resi tutti uguali e lo ha fatto senza avvisare con un tweet, senza fare conferenze stampa, senza procedure e senza decreti legge.
Ci ha reso uguali nella paura comune ma soprattutto nel silenzio.
Il virus per due anni era il solo protagonista delle cene, dei post sui social, dei dibattiti in tv senza pubblico, degli aperitivi su zoom. Il covid si è preso la scena imbavagliando quelli che si sentivano normali tra diversi e quelli che si sentivano diversi tra normali.
Ma chi si illudeva di aver soffocato una rivoluzione che aveva solo iniziato a fare i primi passi, non aveva capito che reprimere una necessità, ne avrebbe triplicato la forza esplosiva.
E così è stato: appena il mondo è riuscito a domare il virus, il bisogno di esprimersi e di poter finalmente “essere liberi di essere” ha fatto attecchire la “rivoluzione inclusiva” in ogni ambito della nostra società moderna cambiando con fatica ma radicalmente le consuetudini di ognuno di noi. Grandi multinazionali e piccole realtà stanno cambiando il loro modo di progettare, produrre e vendere.
Governi e parlamenti di tutti i paesi del mondo attuano (o almeno ci provano) nuove politiche di inclusione.
Andiamo verso un mondo che non si vergognerà più per le proprie differenze ma ne sarà orgoglioso.
Ma (c’è sempre un ma) un rischio c’è.
C’è il rischio che chi richiede l’inclusione e finalmente diventi incluso, radicalizzi troppo la sua vittoria e faccia diventare la sua inclusione una nuova etichetta.
Continuiamo a lottare ma Impariamo la lezione che ci ha dato il Covid che, nella paura di “non esserci più”, ci ha omologato tutti in semplici individui caduchi e una volta raggiunta l’inclusività che aneliamo cerchiamo di emergere non come “inclusi” (la cui etimologia deriva dal latino includēre = rinchiudere – alert!!!) ma anzi come persone, aperte e tolleranti e libere semplicemente di ESSERE.
Le rivoluzioni, qualsiasi esse siano, devono aprire le menti e mai rinchiuderle.