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Cara Disney ti scrivo…

Nel 2005 avevo tre anni.
Al mio rientro dall’asilo mia madre mi preparava un panino con burro e marmellata, rigorosamente ai frutti di bosco o alla fragola. Non potevo fare merenda senza guardare “Alla ricerca di Nemo”, sempre. Tutti i giorni. Durante tutte le merende. Io amavo Nemo: conoscevo a memoria tutte le battute. Potevo rinunciare a Nemo solo per Toy Story o Monsters & Co. Comunque tutto doveva essere Disney. La Disney è stata una costante nella vita un po’ di tutti: colori,  musiche e personaggi  restavano impressi nella testa; ancora oggi io amo follemente i cartoni Disney, Nemo resta il mio preferito ma li amo davvero tutti. Vederli  mi  rilassa nei momenti di ansia o di tristezza e mi permettono talvolta di  tornare sul quel divano nel 2005 con pane, burro e marmellata.

Dopo aver lanciato i grandi classici delle fiabe, la Disney ha iniziato a presentare storie e sceneggiature nuove  e attraverso la collaborazione con Pixar ha portato sul grande e piccolo schermo delle storie contemporanee a metà tra la fiaba e la satira sociale. I nuovi lungometraggi Disney hanno conquistato i bambini di tutto il mondo con sempre maggior ironia verso il mondo adulto e le dinamiche sociali del periodo in cui venivano prodotti. La storia stessa del mio adorato Nemo, alla fine non è altro che la storia di un padre single apprensivo fino allo sfinimento, chiamato a crescere un figlio in una società bambino-centrica. Nemo in più è un pesciolino con una pinna atrofica, ma dimostra a suo padre e al mondo che con la volontà può fare tutto quello che vuole. Io ovviamente a tre anni tutte queste cose non ero in grado di coglierle, ma di sicuro mi hanno subliminalmente avvicinato a questo tipo di tematiche.

Oggi sono adulta e la Disney si è evoluta ulteriormente.
Tenta un altro switch come quando passò dai classici ai film Pixar.
Ma qualcosa non mi convince…

Forse ho grandi aspettative da quella grande amica di infanzia che è stata per me.
La grafica ovviamente fa passi da gigante ma sui contenuti mi piacerebbe confrontarmi…

Ultimamente è balzata agli onori delle cronache la possibilità che la Disney rivedesse e “censurasse” i grandi classici del passato. Biancaneve sembrerebbe non poter più convivere con i nani per non incorrere in sfruttamento e body-shaming; il principe non potrebbe più baciare la bella addormentata perché non consensuale all’atto amoroso. Cercano di metterci una pezza con i live action, facendo interpretare Biancaneve ad un’attrice di colore…

Biancaneve è una favola scritta dai fratelli Grimm nel 1812 e parla di una ragazza appunto “bianca come la neve”; è coerente che l’attrice che la interpreta debba essere esattamente come la vuole la storia originale, perché è un grande classico che va lasciato così com’è.

Se davvero la Disney volesse dare un forte segnale di inclusività Biancaneve dovrebbe essere interpretata da un’attrice albina! Intendiamoci… La provocazione che voglio lanciare non è sulla scelta dell’attrice in sé, ma sulle scelte “politically correct” che però vanno a snaturare un’intera filmografia cult che ha una sua collocazione storica e culturale.  Invece di cambiare i grandi classici che hanno fatto la storia, con questi continui live action, perché non inventarsi un nuovo personaggio che rispecchi i nuovi bisogni inclusivi?

Vorrei tanto portare mio cugino di due anni a vedere una nuova storia, con principesse che salvano i principi, con principi che salvano altri principi, magari – meglio ancora – con principesse e principi che non hanno più bisogno di essere salvate/i da nessuno perchè si salvano benissimo da sole/i. Paladine e paladini paffuti ma felici,  Supereroi over 50… insomma film in cui le bambine e bambine possano trovare tutte le identità che li circondano e che possano riconoscersi loro stessi senza stereotipi e falsi miti impossibili da raggiungere.  L’anno scorso è uscito il film “Luca”: il lungometraggio animato è il primo film dichiaratamente inclusivo della Disney.  “Luca” indica la via: è la storia di due ragazzini diversi e discriminati che contando l’uno sull’altro riescono a fare della loro diversità una forza e che riescono a cambiare l’opinione delle persone attorno a loro. Non solo: diventano uno stimolo alla emancipazione e aiutano altri “differenti” a mostrarsi per quello che sono.

Ma Disney, ti dirò…. io non mi accontento! Adesso voglio una storia mai sentita; un personaggio che sia apertamente inclusivo, senza bisogno di leggere tra le righe. Se vuoi continuare ad essere indispensabile per i piccoli aprendo le menti dei grandi ormai è questa la strada. Biancaneve, Cenerentola, forse anche l’adorato Nemo sono storie meravigliose, intoccabili ma di altri tempi e seguono le epoche  in cui sono nate, come è giusto che sia.

Non è, Disney, che hai un po’ di paura???? Hai paura sia di essere inclusiva ma anche del contrario. Già lo sai: qualcuno, da una parte o dall’altra, alzerà un polverone con relativa tempesta mediatica. Una svolta così netta destabilizzerà i garanti. In alcuni paesi potrebbe essere censurato, adirittura non proiettabile. E’ già successo con il film Marvel “Eternals” che è stato bloccato in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein e Oman, dove l’omosessualità è ancora vista come un crimine che in alcuni casi porta anche alla pena di morte.

Così però tieni un po’ il piede in due scarpe, mentre dai degli spiragli di apertura mentale, strizzi l’occhio a quelli più “conservatori” non facendo niente di troppo esplicito…

Insomma Disney, devi scegliere se aprirti davvero o continuare a fare “blackwashing” con questi live action che annoiano e perdere una delle tue più grandi occasioni. Parliamoci chiaro… non vorrai farti superare dalla Dreamworks…?

giorgia.notari2002@gmail.com

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Se per distruggere le etichette, ne stessimo generando una nuova…

Alcune parole diventano il simbolo di un certo periodo storico. Il rinnovamento negli anni ‘60, la trasgressione nei ‘70, l’edonismo negli anni ‘80, la rivoluzione tecnologica negli anni ‘90. Gli anni ‘20 del nuovo (ma non più nuovissimo) millennio saranno ricordati con la parola inclusività.

Stiamo assistendo a una rivoluzione culturale molto vicina a quella degli anni ‘70 con la differenza che la rivoluzione è più social che sociale e si diffonde con estrema velocità in tutti gli ambiti del nostro quotidiano.
Già nel primo decennio del XXI secolo la lotta per il riconoscimento dei diritti degli individui ha scosso governi, pensieri e coscienze.
Le prime lotte per l’inclusività sono partite dalle comunità omosessuale che ha aperto la strada (e le menti) alle battaglie contro tutto ciò che nega i diritti di un individuo a causa di una diversità di genere, di razza, di credo religioso o politico, di una disabilità fisica o intellettuale.
Poi…la pandemia.
La pandemia ci ha resi tutti uguali e lo ha fatto senza avvisare con un tweet, senza fare conferenze stampa, senza procedure e senza decreti legge.

Ci ha reso uguali nella paura comune ma soprattutto nel silenzio.

Il virus per due anni era il solo protagonista delle cene, dei post sui social, dei dibattiti in tv senza pubblico, degli aperitivi su zoom. Il covid si è preso la scena imbavagliando quelli che si sentivano normali tra diversi e quelli che si sentivano diversi tra normali.
Ma chi si illudeva di aver soffocato una rivoluzione che aveva solo iniziato a fare i primi passi, non aveva capito che reprimere una necessità, ne avrebbe triplicato la forza esplosiva.
E così è stato: appena il mondo è riuscito a domare il virus, il bisogno di esprimersi e di poter finalmente “essere liberi di essere” ha fatto attecchire la “rivoluzione inclusiva” in ogni ambito della nostra società moderna cambiando con fatica ma radicalmente le consuetudini di ognuno di noi. Grandi multinazionali e piccole realtà stanno cambiando il loro modo di progettare, produrre e vendere.
Governi e parlamenti di tutti i paesi del mondo attuano (o almeno ci provano) nuove politiche di inclusione.

Andiamo verso un mondo che non si vergognerà più per le proprie differenze ma ne sarà orgoglioso.
Ma (c’è sempre un ma) un rischio c’è.
C’è il rischio che chi richiede l’inclusione e finalmente diventi incluso, radicalizzi troppo la sua vittoria e faccia diventare la sua inclusione una nuova etichetta.

Continuiamo a lottare ma Impariamo la lezione che ci ha dato il Covid che, nella paura di “non esserci più”, ci ha omologato tutti in semplici individui caduchi e una volta raggiunta l’inclusività che aneliamo cerchiamo di emergere non come “inclusi” (la cui etimologia deriva dal latino includēre = rinchiudere – alert!!!) ma anzi come persone, aperte e tolleranti e libere semplicemente di ESSERE.

Le rivoluzioni, qualsiasi esse siano, devono aprire le menti e mai rinchiuderle.

silvia@zooe.it